Avete mai provato a mettere in fila tanti sassi, quelli che hanno una riga bianca? Sulla spiaggia di Baratti assieme ai bambini abbiamo fatto una di queste righe, di sassi con la riga, che andavano dall'acqua fino ai cespugli attraversando la sabbia. Come un confine tra due zone della spiaggia. Poi ci siamo seduti a vedere la reazione della gente: solo pochissime persone l'hanno notata, alcuni la scavalcavano senza osservarla, altri hanno dato un calcio a qualche sasso, un cane si è fermato ad annusare i sassi. Il giorno dopo era parzialmente distrutta. Bruno Munari, Da lontano era un’isola, Corraini Edizioni, Mantova 2008

Il viaggio, come evento individuale o collettivo, avventura fisica o mentale, è un fenomeno che attraversa l'intera storia della civiltà umana. Grande metafora della ricerca individuale o rappresentazione simbolica dell'esistenza, ha una lunga tradizione come fatto letterario: dai miti e dalle epopee delle origini ai testi più specificamente tecnici della letteratura medievale e umanistica, fino alle relazioni dei navigatori e degli esploratori. Per gli aborigeni australiani, la loro terra è segnata da un intrecciarsi di “Vie dei canti”, “Piste del sogno” o “Impronte degli antenati”, in un labirinto di percorsi visibili soltanto ai loro occhi.
Molteplici sono le forme attraverso cui si racconta l'esperienza del viaggio: memorie, lettere, itinerari, guide, trattati, e innumerevoli sono gli interessi culturali e le motivazioni individuali che la stimolano. Accanto alla curiosità per l'ignoto e al fascino per l'avventura di Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci o Giovanni da Verrazzano, esiste l'interesse economico dei mercanti, la ricerca scientifica e storica di personaggi come Alvise da Mosto, o la spinta religiosa di un gesuita come Matteo Ricci, oltre ai resoconti eruditi di Francesco Petrarca o Giovanni Boccaccio. Sono esistiti scrittori “nomadi” quali Patrick Leigh Fermor che, diciannovenne, decide di raggiungere a piedi Costantinopoli, vivendo «come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante» (Patrick Leigh Fermor, Fra i boschi e l'acqua, Adelphi, Milano 2013), e Bruce Chatwin, che diventa «irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due» (Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi, Milano 1996).
L’elenco di artisti che nel secolo scorso si spostano alla ricerca di nuovi stimoli creativi o per necessità è sterminato: Pablo Picasso, Vasily Kandinsky, Kurt Schwitters, Max Ernst, Piet Mondrian, Gino Severini... Quasi tutti, portando la patria nel cuore, viaggiano e fanno esperienza di altri paesi, regalandoci intense pagine di diari con le loro impressioni. Tra i più significativi in questo senso sono gli scritti di Paul Klee: «Martedì 7 Aprile, risveglio in vista della costa sarda. I colori dell’acqua e del cielo sono più intensi del giorno prima. […] Nel pomeriggio appare la costa africana. Più tardi, nettamente visibile, la prima città araba, Sidi Bou Said, e un dosso di montagna su cui sorgono, secondo un ritmo religioso, bianche forme di case. La favola si materializza ancora palpabile e remota, e tuttavia chiaramente visibile. Il nostro piroscafo lascia il mare aperto. Il porto e la città di Tunisi si estendono arretrate, in parte nascosti. […] Il sole di una forza oscura. La chiarità soffusa sulla terra, una promessa». (Paul Klee, Diari 1898–1918, Il Saggiatore, Milano 2010).
Anche Alighiero Boetti, artista dall’irrequietudine metabolica, vive costantemente in viaggio e del nuovo alimenta la propria arte: «Alighiero gustava la distanza, lo shock del diverso, fatto di luce altra, di rumori e odori altri, di ritmi altri. Detestava il camaleontismo di certi viaggiatori. Assumeva senza ostentarla la sua diversità. E gli Afghani rispettavano il suo rispetto» (Annemarie Sauzeau, Shaman showman Alighiero e Boetti, Luca Sossella editore, Roma 2006).

Molti artisti recuperano inoltre la tradizione del camminare anche per percorsi considerevoli, rendendola valore e opera a sé. Dalla deambulazione surrealista ai percorsi della Land Art, fino al movimento  internazionale degli “artisti camminatori”, di cui gli inglesi Hamish Fulton e Richard Long sono i padri fondatori, diverse sono le esperienze che rendono il viaggio una via privilegiata per affermare il contatto diretto con lo spazio nel quale l’uomo si muove.
Il viaggio può essere anche interiore o immaginario. È il caso di Joseph Cornell, la cui opera si muove tra geografia limitata e viaggi fantastici. Statico al punto da non muoversi mai dalla sua casa di Flushing, New York, dove è nato, vivendoci sino alla morte, Cornell esplora il mondo con la mente o attraverso gli oggetti, che colleziona quasi compulsivo. Lavorare alle sue scatole nella cantina di casa diventa per lui sostitutivo del viaggiare: la sistemazione di souvenir immaginari produce la stessa eccitazione del viaggio. Pappagallo che predice il futuro è ricco di riferimenti a viaggi in paesi esotici. «Che uomo è questo», disse nel 1953 l’artista Robert Motherwell, suo amico, «che, a partire da vecchie fotografie marroni su cartone, ha ricostruito il Grand Tour europeo dell’Ottocento per l’occhio della sua mente più efficacemente di coloro che lo fecero, lui che a quel tempo non era nato e non è mai uscito dal suo paese, eppure conosce l’aspetto del Vesuvio in una specifica mattina del 1879 e le balconate di ferro battuto di un preciso albergo di Lucerna?» (Robert Motherwell, "Preface to a Joseph Cornell Exhibition. A statement on Cornell for a proposed catalogue for a Joseph Cornell exhibition held at the Walker Art Center, Minneapolis, July 12-August 30, 1953", testo dattiloscritto).
Simili viaggi di fantasia sono stati compiuti da Ferdinand Cheval (1836–1924), postino del paese di Hauterives, nella regione francese del Rodano-Alpi, che per 33 anni si dedica alla costruzione di un palais idéal tuttora esistente, in un bizzarro stile eclettico. Da completo autodidatta, ispirandosi alle cartoline illustrate che consegnava, plasma imitazioni di monumenti e architetture di ogni parte del mondo, inglobandole in un’unica struttura. Per i surrealisti Cheval è un eroe, un uomo che ha costruito i propri sogni, e Max Ernst, ad esempio, nel 1932 gli rende omaggio con il collage Il postino Cheval.
Sono pochissimi i pittori e gli scultori del Novecento che restano fermi: chi per necessità, chi per curiosità, chi attraverso l’immaginazione, tutti viaggiano. Il tema del viaggio infatti assume, in modo particolare negli artisti, il valore simbolico della ricerca di se stessi, dei meccanismi psichici e creativi, dei ricordi, delle emozioni e delle motivazioni dei comportamenti. «Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. […] Quando ero bambino e andavo a passeggiare sul Carso, a Trieste, la frontiera che vedevo, vicinissima, era invalicabile. […] Dietro quella frontiera c’erano insieme l’ignoto e il noto. […] Ogni viaggio implica, più o meno, una consimile esperienza: qualcuno o qualcosa che sembrava vicino e ben conosciuto si rivela straniero e indecifrabile, oppure un individuo, un paesaggio, una cultura che ritenevamo diversi e alieni si mostrano affini e parenti» (Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Milano, Mondadori 2005).

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