Io sono una forza del passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini e sulle Prealpi / Giro per la Tuscolana come un pazzo, / per l'Appia come un cane senza padrone. / O guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d'anagrafe, / dall'orlo estremo di qualche età / sepolta. Pier Paolo Pasolini, Una forza del passato, dall'episodio "La ricotta" del film RoGoPaG, 1963

Accanto a movimenti estremamente rivoluzionari come il Futurismo («Ma noi non vogliamo più saperne, del passato, noi giovani futuristi!», scrive Filippo Tommaso Marinetti nel Manifesto del Futurismo del 20 Febbraio 1909), nel Novecento si sono sviluppate moltissime ricerche artistiche ispirate al cosiddetto folklore. La ripresa di una vita rituale della società, che si manifesta in canti, danze, feste e storie popolari è infatti stata oggetto della produzione di diversi artisti, per i quali navigare in equilibrio costante tra attualità e tradizione è stato naturale.
Le opere del rumeno Constantin Brancusi, ad esempio, sono a un tempo arcaiche e modernissime. Lo scultore rimane saldamente ancorato alle tradizioni e ai racconti della sua terra, da cui raggiunge a piedi Parigi a inizio del secolo scorso. I suoi animali (uccelli, foche, tartarughe) hanno le forme primarie dell’essere, comprendono la staticità dell’antico e del remoto, ma anche la dinamicità del contemporaneo, e la mitologia popolare rumena è sempre presente: «La mia famiglia la mia patria è la terra che gira/ la brezza del vento/ le nuvole che passano/ l’acqua che si sparge/ il fuoco che scalda Erbe verdi – erbe/ secche – il fango/ la neve» (Constantin Brancusi, Aforismi, a cura di Paolo Mola, Abscondita Milano, 2001).
Anche per Marc Chagall, nato Mark Zacharovič Šagalov, la terra d’origine rappresenta un punto fermo: quella Russia del primo Novecento che più che essere luogo geografico e storico, era luogo dello spirito. Nelle sue creazioni sono rintracciabili temi collegati alla tradizione russa, alle favole, alle stampe popolari lubki, così come alle sue origini ebraiche: i violinisti, circhi, rabbini erranti protagonisti delle sue opere, fanno tutti riferimento alla sua cultura familiare.
Memoria, sogno, narrazione sono presenti anche nella produzione di Joan Miró, costellata di simboli e amore per la tradizione: « L’arte popolare mi commuove sempre. Non vi è, in quest’arte, né inganno né trucco. Va diritta allo scopo. Sorprende ed è talmente ricca di possibilità» (Joan Miró, Lavoro come un giardiniere e altri scritti, a cura di Marco Alessandrini, Abscondita, Milano 2008). Miró ha fatto della terra il tema dominante della sua vita, un percorso dentro se stesso e nell’arte, dal rosso delle rocce catalane ai colori di Parigi. Come molti artisti della sua generazione, desidera esprimere qualcosa di infinito e minimale e per questo motivo inizialmente si occupa di ricercare le sue radici affondate nella terra bruna di Catalogna, provando poi a rappresentarle attraverso l’inafferrabile soffio vitale della pittura: «Noi catalani riteniamo che sia necessario tenere i piedi ben piantati a terra se si vuole compiere un salto. Il fatto di potermi posare a terra di tanto in tanto mi consente di saltare più in alto» ("The Art Gallery Magazine", vol. 15, edizione 1, Hollycroft Press, Ivoryton 1971).
Il ritorno alle origini diviene sia ripresa del Classicismo, come nelle opere di Pablo Picasso di inizio Novecento, sia spinta creativa per una generazione di artisti italiani. Dopo le esperienze dirompenti dei primi anni del secolo scorso, infatti, Carlo Carrà, Gino Severini, Ardengo Soffici, Giorgio de Chirico, Alberto Giacometti, Amedeo Modigliani scelgono infatti questa strada per ricollegarsi alle radici e alle tradizioni. Marino Marini esprime forme compatte solide, a tratti arcaiche; Salvador Dalí nella Nascita dei desideri liquidi (1931–32), cita letteralmente il celebre intaglio su corniola con Apollo, Marsia e Olimpo appartenuto a Lorenzo il Magnifico. La volontà è la ricerca di testimonianze estetiche universali, di significati che non hanno mai perduto il valore e che concedono quindi la possibilità di un recupero di canoni e di misure, di moduli, di lezioni capaci di dominare anche oggi il nostro esistere quotidiano.

Artisti cronologicamente più vicini a noi sono rimasti affascinati da tipicità e microstorie locali: Giosetta Fioroni, Michelangelo Pistoletto, Pino Pascali, Mario Merz hanno sperimentano vie regionalistiche o tout court etnografiche, in polemica con gli stili dominanti, minimal e concettuali; e proprio Pistoletto, nel 1965, concepisce un Paesaggio che è un presepe.
Impossibile non citare Maria Lai, artista sarda recentemente scomparsa: figura legata alla fiaba, alla poesia, al mito, al magico insito tra le trame della natura e della cultura, alla tradizione popolare, al lavoro artigianale paziente, manuale, mentale e ad alcuni animali che assurgono a metafora felice di resistenza e di coesistenza (la capra, l'ape, la formica). Le storie dei suoi raffinati ricami sono sacre: si tratta di mitologie e di cosmogonie, di mappe stellari e geografie mentali.
Molti artisti del Novecento ci parlano dell’uomo che costruisce maschere, inventa segni, cerimonia, profetizza, combatte e accarezza la natura, si muove, sogna, teme, medita, dipinge. Che si tratti del viaggio prezioso tra le cose domestiche e della riflessione profonda e spirituale alla base del rapporto di Giorgio Morandi con la natura e l’architettura del suo paese, Grizzana; o dell'interesse per la cultura e i miti degli indiani d'America, per i pittogrammi, di espressionisti astratti quali Arshile Gorky, Adolph Gottlieb, Willem de Kooning, Jackson Pollock.
Le tradizioni restano un punto fermo, l'involucro, l'arcadia ritrovata di un'esistenza normale, il luogo fisico dove far conciliare la natura e le idee.
Queste esperienze aprono le porte di un’unica vera identità che è quella dell’essere umano in quanto soggetto vivente, pensante, sociale, in relazione ad altri esseri, a uno spazio, a un tempo, a una complessità di forme, riti e movimenti che lo circondano.
Molti artisti moderni e contemporanei ci portano dentro a un mondo che è il loro e il nostro al tempo stesso, dentro a un castello di tempi, memorie, immaginazioni, che senza timore si velano e svelano nell’antichità delle loro terre.
Del resto il termine “paese” va alla radice della nostra cultura antropologica: deriva infatti dall’indoeuropeo pak, che significa “piantare”, “coltivare” (il francese paysan o l’inglese peasant hanno la stessa origine); pak è anche la pietra tombale, dove riposano i padri (sussume pertanto le connotazioni genealogiche di “patria”), legando la memoria individuale e collettiva al “paesaggio”. “Paese” è quanto cresce dentro come un albero, parte inconscia o anima vegetativa, fatta di umori e corpo, di abitudini e rituali, odori e luci: «Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione» (Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 2005).

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