ARCHETIPI

L’archetipo, nella sua definizione primaria, indica il primo esemplare, l’originale, il modello di qualcosa, ma la parola assume ulteriori accezioni se inserita in un contesto filosofico piuttosto che nell’ambito della psicologia o della critica storico-artistica. Platone (V sec. a.C.) riconduce l’archetipo al “mondo delle idee”, il piano ontologico superiore rispetto alla realtà sensibile in cui esistono esclusivamente categorie ordinate che costituiscono il modello da cui il mondo fisico – inferiore e imperfetto – mutua la propria struttura. Nella sua teoria filosofica, lo psichiatra e psicologo svizzero Carl Gustav Jung (1875–1961) teorizza l’esistenza di un fondamento psichico comune all’intera umanità, non legato alle esperienze individuali o al luogo di appartenenza. Se per Sigmund Freud (1856–1839) l’inconscio è uno strato di acquisizioni individuali, Jung individua in un inconscio più profondo, innato e dalla matrice universale, il luogo che raccoglie immagini primordiali che sono le medesime per chiunque e ovunque: gli archetipi. L’archetipo della Grande Madre, quello dell’eroe o dell’ombra sono alcune delle figure ataviche dell’inconscio collettivo individuate da Jung. Questo immaginario universale si cristallizza nei miti o nelle fiabe e affiora nei sogni e nelle fantasie prodotte dall’immaginazione, tanto che nella storia dell’arte di tutti i tempi e nelle espressioni visive di svariati popoli gli archetipi si rivelano in forme artistiche pittoriche o scultoree, tornando come motivi ricorrenti e assoluti dell’espressione umana. Ciò avverrebbe a causa dell’esistenza di un comune inconscio collettivo in cui pratiche religiose, usi, costumi o miti di popolazioni lontane si ritrovano in modelli simili, se non uguali. Miti, simboli e allegorie della classicità o archetipi come quelli del viaggiatore, dell’eroe, dell’uomo solitario, del voyeur, del vecchio saggio, del mago, della femme fatale, della contadina o della pastorella così come dell’ombra e della foresta buia sono ripresi nella cultura occidentale romantica di fine Ottocento. Tra le avanguardie storiche dei primi del Novecento, il Surrealismo abbraccia con interesse le teorie dell’inconscio, sia freudiane sia junghiane. André Breton (1896–1966), tra i fondatori del movimento surrealista, teorizza l’esistenza della “surrealtà”, una dimensione universalistica e astorica simile all’inconscio collettivo di Jung. In La nascita dei desideri liquidi (1931–1932), Salvador Dalí rappresenta Guglielmo Tell come archetipo dell’aggressività paterna: il dipinto raffigura il desiderio dell’artista nei confronti di una donna, un desiderio contrastato proprio dal padre. Victor Brauner, nel dipinto Il surrealista (1947), realizza un autoritratto partendo da un arcano maggiore dei tarocchi: il giocoliere. La carta dei tarocchi fornisce a Brauner un archetipo per parlare di sé: il giocoliere simboleggia infatti l’ingegno e la creatività, caratteristiche tipiche di un artista. Max Ernst in La foresta (1927–1928) e Jackson Pollock in Foresta incantata (1947) riprendono l’archetipo della foresta come luogo oscuro e tenebroso, simbolo dello smarrimento e della ricerca. Non è dunque un caso se proprio il mondo dei sogni, uno dei luoghi dove gli archetipi si cristallizzano, sia l’ambito indagato dai surrealisti, i quali, mediante alcune tecniche artistiche come l’automatismo psichico, si ripropongono di richiamare l’inconscio, inteso come universo popolato dagli archetipi, ovvero immagini primordiali estranee a qualsiasi controllo della ragione, della morale e dell’estetica.