
“Nella misura in cui il passato in generale è l’elemento nel quale si può rimirare ogni antico presente, che vi si conserva, l’antico presente si trova rappresentato nell’attuale […] L’antico e l’attuale presente non sono dunque come due istanti successivi sulla linea del tempo, ma l’attuale comporta di necessità una dimensione ulteriore con cui ri-presentare l’antico, e in cui anche si rappresenta”
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997
La “citazione”, intesa come richiamo esplicito o allusivo ad altre produzioni artistiche, e il “tributo”, ovvero l’omaggio e il riconoscimento verso un altro artista, hanno contraddistinto le diverse forme d’arte nel corso dei secoli. Spesso Johan Sebastian Bach alla fine delle sue composizioni, così come Igor Stravinsky in Pètrouchka, inserisce rimandi a filastrocche popolari e melodie da organetti di strada per far sì che l’ascoltatore possa riconoscere i motivi della tradizione popolare. Nella Divina commedia di Dante Alighieri sono rintracciabili numerose reminiscenze catulliane, che lo stesso autore latino avrebbe tradotto e ripreso a sua volta da alcune poesie di Saffo. Quest’ultima viene citata, ad esempio, anche nell’Ottocento da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi. Questa moltitudine di rimandi e di riferimenti che, attraverso i secoli, caratterizza la produzione delle arti, con l’irrompere delle avanguardie storiche del Novecento acquisisce nuovi significati e variabili. Per gli artisti avanguardisti le principali ragioni all’origine del tributo sono: il riconoscimento dell’auctoritas dell’artista, l’ironico desiderio di dissacrare ciò che è ritenuto esemplare dalla cultura ufficiale, e il capovolgimento del senso di un’opera per trasformarla in qualcosa di nuovo, destabilizzando quanto visivamente assodato. Marcel Duchamp mette in discussione il concetto di originalità equiparando il valore della riproduzione all’opera originale.
In L.H.O.O.Q (1919), l’artista aggiunge baffi e pizzetto alla Monna Lisa di Leonardo da Vinci, alterando e destituendo così la definizione stessa di “citazione”. Diversamente Pablo Picasso, dipingendo per ben 58 volte l’opera Las Meninas, dall’omonimo quadro di Diego Velàzquez del 1656, pratica una reinvenzione dell’originale tramite un processo di appropriazione e rielaborazione. Anche Joan Miró in Interno olandese II (1928) reinterpreta e trasforma l’opera Lezione di ballo (1665-79) del pittore fiammingo Jan Steen: con una trasformazione graduale del dettaglio in forma eccentrica, un ingrandimento e concentrazione sulle forme umane e sugli animali. Il surrealista Max Ernst cita frequentemente Hironymus Bosch, che ammira per le sue qualità visionarie e per il potere irrazionale dei suoi dipinti, come si può riscontrare nell’opera Vestizione della sposa (1940), nel particolare della figura verde in basso a destra. Fuori dal coro è invece Giorgio de Chirico, che a partire dagli anni ’20 del Novecento esegue numerose copie tratte da artisti ripudiati dall’avanguardia, come Albrecht Dürer, Raffaello Sanzio o Peter Paul Rubens, recuperandone le tecniche pittoriche. Con gli anni ’60 e l’affermarsi della cultura della Pop Art, l’arte si popola di nuove iconografie, spesso figure citate dal mondo dell’arte che diventano icone mass-mediali.